Parola di gabelliere

In una delle mie vite precedenti ho fatto per sei anni il gabelliere.
Anzi, sono stato l’ultimo direttore a Sanremo, dopo di me l’imposizione locale e diretta sui consumi sarà abolita e prenderà il via la finanza derivata con i trasferimenti taglieggiati dal pizzo dello Stato.
Erano i primi Anni Settanta e nel mezzo secolo che ne è seguito nel mio piccolo in ruoli e mute diverse cavalcherò da “surfer” lo tsunami riformatore che doveva cancellare l’eredità del “bieco ventennio” non soltanto in campo tributario.
Oggi mi guardo indietro e con tristezza infinita mi sento al tempo stesso spettatore e partecipe di un assurdo inganno.

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Mi spiego.
Tutte le riforme con le quali ho avuto a che fare erano ispirate al Vangelo della Costituzione come capitoli di un Messale sul quale la democrazia celebrava ogni volta una “Missa Solemnis” con il “Te Deum” finale.
Con la madre di tutte le riforme, il decentramento regionale dello Stato etico fascista, eravamo partiti forte, a Genova ricordo l’esordio con Gianni Dagnino primo presidente della nascente regione e con i suoi due dg Badano & Lombardo.
Da dirigente mi erano toccati in sorte un paio di settori nei quali l’apparato centrale era fortemente radicato in Liguria con strutture e con personale di un certo rilievo, tipo quelli dei tre Enti nazionali di formazione professionale o quello dei servizi su base comunale per il diritto allo studio, tipo i patronati scolastici.
Ma tutte le riforme erano recalcitranti, Roma non ha mai mollato del tutto l’osso, e con fondi nazionali da spartire, leggi-quadro autoritratto e materie riservate, come con Penelope si riprendeva di notte quello che aveva mollato di giorno.
Alla fine, mezzo secolo dopo, lo Stato che era chiamato a realizzare la Costituzione, un po’ come la Chiesa con il Vangelo, ha invece ottenuto l’opposto, come un prete che confonde la parole di Dio con la liturgia del messale.

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Torno da dove sono partito e dove l’inganno si tocca con mano, il livello comunale e in particolare per ragioni empatiche non più a Sanremo ma a Ventimiglia.
Qui, come in ogni altro comune d’Italia, si celebra la liturgia elettorale, non c’è più il podestà ma si elegge direttamente il sindaco, si applica il principio cardine della prossimità, solo temperato da quelli delle tre “e”, -efficienza, efficacia e economicità- attraverso la partecipazione a livelli sovracomunali.
Qui come dappertutto il rituale burocratico è digitale, imprigionato in un server monitorato a Genova e a Roma da secondini che vigilano sul rispetto del messale che vuole tutti i comuni uguali di fronte alla divinità statale e al Dio minore regionale.
Cioè, esattamente agli antipodi del principio costituzionale di prossimità secondo il quale tutti i comuni, ai vari livelli territoriali e demografici, sono diversi.
L’inganno è questo: per esempio quasi un secolo fa il podestà Agosti spiegò a Mussolini che i giocatori emigravano a Montecarlo e ottenne il casinò, invece il futuro sindaco compilerà moduli digitali che con un clic finiranno in un algoritmo senza anima e senza memoria e non otterrà un cazzo.
In compenso lo Stato si ricorderà del Roya nel PNRR non per metterlo in sicurezza in base alle prescrizioni urgentissime del Piano di Bacino ma per aprire altri due pozzi nel suo subalveo e poi dirottarli lontano.
Lo stesso Stato che ignora il muro francese contro il quale a Ventimiglia vanno a sbattere i migranti che poi restano lì storditi e abbandonati e che ha dimenticato le sue sovrastrutture ferroviarie e stradali in disarmo che hanno sequestrato e ibernato vaste porzioni strategiche del territorio comunale, come cetacei spiaggiati da decenni.

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Ne parlo perché qui a Ventimiglia il confronto non è tra persone chiamate a cliccare, ma tra chi accetta questo ruolo passivo da robot, pensa anzi di avere solo lui il ditino giusto per schiacciare il tasto, e invece chi, come Tano Scullino, non si è mai appiattito sull’inganno che sostituisce lo Stato etico fascista ma attento alle diversità con un server nazionale e regionale che applica un messale omogeneizzatore e egualitario.
Tano è una specie di rabdomante che trova l’acqua pubblica e privata dove per tutti gli altri c’è il deserto.
E se lo dice un gabelliere che nel tempio comunale ha riscosso dai fedeli le decime evangeliche e non un’elemosina decimata da uno Stato rapace dovete credergli.

Bruno Giri

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