Amarcord è una parola ormai diventata d’uso comune in Italia che indica il ricordo nostalgico,quasi malinconico dei momenti ormai lontani nel tempo. Il termine non è inglese, come pensavo, ma viene dritto dritto dal dialetto romagnolo “a m’arcord” che vuol dire “io mi ricordo“. E io, che son ligure d’adozione, dopo aver riletto il post che ho scritto ieri, a m’arcord dei tempi in cui la mia città aveva la speranza di mutare, cambiare pelle, in cui sentivo di poter guardare con fierezza al mio futuro qui, tra i fiori (come un figlio dei), senza dover andare là, con nessuno (come un figlio di). E non trovo, ad oggi, una spiegazione del perché tutto ciò sia finito e del perché nessuno si indigni della fine di quel flebile inizio di conclusione di un periodo cominciato dove terminava l’arrivo di chi non aveva concluso (niente)*. Sicuramente, non trovo quella spiegazione guardando il porto o guardando le strade della mia città, l’ineluttabile fine del mercato, delle nostre spiagge, del turismo e del commercio. Quel che è sicuro è che, andando avanti così, aumentiamo la già altissima probabilità che i nostri figli diventino degli immigrati clandestini viaggianti a bordo di gommoni bucati con direzione oriente. Vedo già i nostri figli costretti a imparare il Mandarino per sopravvivere, facendo il Colf a Pechino, sottopagato dalla famiglia Jung Chen Chao.
27 ottobre 2014 – Albino Dicerto
*questa frase è geniale.