Lettera a Jacopo, mia sorella e gli altri cervelli in fuga

Cari,

leggendo quest’articolo mi sono passate per la mente, d’un lampo, mille cose. Era il lontanissimo febbraio del 2009 quando il rettore dell’Università di Roma mi incoronò Dottore di ricerca. Mi era sembrata, all’epoca, un’impresa titanica: le mie parole erano state ascoltate da professori e ricercatori di mezza Europa, non avevo paura di nulla. Quasi di nulla. Ero stato lontano da casa tanto tempo, avevo amici sparsi per mezzo mondo e dell’altra metà non mi interessava. Eppure Ventimiglia, il Ponente Ligure, erano l’unica casa che ero riuscito a trovare. E così, mentre scendevo la scaletta dell’aereo di quell’ultimo viaggio da Londra, dimenticai volutamente la mia valigetta di sogni made in U.S. e tornai a fare il cittadino Ventimigliese. Negli anni a seguire ho rifletutto molto sulla scelta di non essere un “cervello in fuga”. Passai dal biasimo alla rabbia per chi abbandonava queste terre per andare a vendersi per pochi spiccioli all’estero. Non riuscivo a capirli, esattamente come non riuscivo a capire un calciatore che per un contratto migliore di qualche milione di euro si vendeva ad un’altra squadra. Con il passare del tempo diventai più tollerante e comprensivo. Non mutò mai l’affetto per questa città, questo no. Mi ritrovo a fantasticare sul come sarebbe questa città e quest’Italia se tutti i cervelli in fuga resistessero alle lusinghe dei soldi, della fama e del successo per stare qui, a lavorare per portare a riva questa zattera italiana ormai in pezzi. Ho una sorella che vive all’estero, anche lei ormai prossima al Dottoramento. Una tipetta speciale, vorrei tornasse anche lei in questa città, almeno in Italia, ma più passa il tempo e più mi rendo conto che lo spazio è poco ed i sacrifici troppi. Da quando sono tornato in Italia non faccio altro che vedere un vecchio strato di cervelli purtroppo non in fuga perché, con ogni probabilità, privi delle gambe. Vedo, passatemi il termine, un meccanismo di selezione avversa dei cervelli dove chi sta messo peggio occupa tutti i posti di potere, nessuno escluso. Vedo però anche tantissima giovani validi che si caricano sulle spalle il destino ormai segnato di questo Paese.

Il mio interrogativo è sempre lo stesso: come sarebbe questo mondo se i cervelli, quelli veri, non fuggissero? Spero di scoprirlo. Il maestro diceva che l’unica cosa che avrebbe potuto salvarci sarebbe stata la fede, ossia, “la certezza di cose che si sperano, la dimostrazione di realtà che non si vedono”.

12 settembre 2013 – Albino Dicerto

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