Mentre mi alleno per il giro dell’Annapurna, guardo i ragazzini giocare a calcio, sotto l’occhio critico dell’allenatore che impartisce lezioni di tattica e rimproveri da motivatore di spogliatoio. Ad un certo punto, un’entrata un po’ più dura fa cadere uno dei ragazzi a terra, lo vedo rotolare, toccarsi la gamba, invocare l’aiuto divino e l’estrema unzione, come i calciatori in tv. Come un flash, mi sono ricordato di quando, in versione braghette e capelli lunghi, giocavo a calcio sulla strada sotto casa mia, quando un’entrata dura ti faceva volare per 3 metri sull’asfalto e ti rialzavi senza fare una piega “che non ti sei fatto niente” nonostante le ginocchia tumefatte e insanguinate e quel bruciore delle palme delle mani tipico di chi felicemente atterra sulla ghiaia. Il fallo da dietro era punito con una rissa di pochi minuti. I motivatori erano seduti sul marciapiede, parlottando tra loro o giocando distrattamente all’elastico, premiando ogni giocata con uno sguardo dolce, un bacio all’uomo partita. Senza mai parlare, ognuno di noi sapeva esattamente quale era il suo posto, alternando discese sulla fascia a rapidi rientri per coprire la difesa. Il modulo più complicato era quello col “portiere volante”, il più semplice quello del “tutti contro tutti”. Il segreto era nell’autoregolarsi, nel fare le squadre equilibrate all’inizio, poi si poteva giocare per ore, perdendo persino di vista il risultato perché, tanto, si finiva sempre che “chi fa l’ultimo vince la partita”. La cantera di Roverino non ha mai prodotto grandi campioni ma mi capita di rivedere i miei compagni di squadra e riconoscere in loro persone oneste che mantengono, con dignità, le loro famiglie. Le nostre scuole calcio sapranno essere scuole di vita come lo è stata la strada?
24 ottobre 2017 – Albino Dicerto