Il presidente interviene a Scandicci: “il conflitto di attribuzione fu una scelta obbligata”. Pubblicato il carteggio con il consigliere giuridico D’Ambrosio, morto il 26 luglio: “Non ho mai esercitato pressioni che potessero favorire Mancino nei processi”. Così D’Ambrosio scriveva a Napolitano il 18 giugno, nel giorno in cui venivano pubblicati i virgolettati delle sue conversazioni con l’ex ministro. La risposta di Napolitano il giorno dopo: “Colpiscono lei per colpire me”.
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“Si è tentato di mescolare” la mia richiesta di conflitto di attribuzione con “il travagliato percorso delle indagini giudiziarie, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica”. Così Giorgio Napolitano nel discorso sulla giustizia tenuto aScandicci, all’inaugurazione della Scuola superiore di magistratura è tornato sul conflitto di attribuzione sollevato dalla presidenza della Repubblica contro la procura di Palermo. Il ricorso alla Corte Costituzionale – la cui sentenza di merito è attesa per il 4 dicembre – ha detto, è stata una “decisione obbligata per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione”. Napolitano ha assicurato di aver agito sempre con “trasparenza e coerenza” e che a questi due principi è stata ispirata anche la decisione di ricorrere alla Consulta. Il presidente ha spiegato inoltre che è stata una “decisione obbligata” anche “riferirsi alla Procura di Palermo, dopo che da essa e solo da essa nel corso del mio mandato era stata data pubblica notizia di avvenute intercettazioni di mie conversazioni telefoniche, ed era venuta una interpretazione difforme da quella che ritengo costituzionalmente legittima delle normative vigenti e della loro applicazione”. Giorgio Napolitano ha ribadito poi che dalla Presidenza della Repubblica non sono giunte interferenze sull’inchiesta Stato-mafia. “Considero – ha aggiunto il presidente della Repubblica – innanzitutto un imperativo e un dovere comune giungere alla definizione dell’autentica verità sulla strage di via D’Amelio, sull’assassinio di Paolo Borsellino”.
IL CARTEGGIO D’AMBROSIO – NAPOLITANO
A poche settimane dal verdetto di merito della Consulta sul conflitto sollevato dal Quirinale, l’inaugurazione della Scuola superiore di Scandicci è stata anche il teatro per rendere pubblico lo scambio di lettere tra il presidente della Repubblica e il consigliere giuridico Loris D’Ambrosioavvenuto all’indomani della pubblicazione delle telefonate di quest’ultimo con l’ex ministro Nicola Mancino. Lo scambio, finora inedito, compare oggi per la prima volta in un libro libro edito proprio Presidenza della Repubblica – Sulla Giustizia – in cui sono raccolti gli interventi sul tema del presidente Napolitano. E il testo è dedicato dal Capo dello Stato proprio a D’Ambrosio, scomparso il 26 luglio scorso per un malore improvviso.
“Non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente, potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze”. Così il consigliere scriveva al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 18 giugno, lo stesso giorno in cui quasi tutti i quotidiani nazionali avevano pubblicato i testi di conversazioni telefoniche tra lo stesso D’Ambrosio e l’ex vicepresidente del Csm, intercettate nell’ambito dell’indagine della Procura di Palermo sulla Trattativa Stato-mafia.
Ma nella lettera D’Ambrosio non si limitava a difendersi dall’accusa di avere favorito Mancino: il consigliere giuridico del Quirinale esprimeva infatti giudizi sulle indagini in corso. Ho sempre detto – continua la lettera – che “le criticità ed i contrasti” nei procedimenti sulle stragi “non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise oltre che il ripudio di metodi investigativi non rigorosi”. Nello specifico, nelle indagini sulla Trattativa Stato-mafia, per D’Ambrosio esistevano “gravi contrasti” tra le diverse procure. D’Ambrosio scriveva infatti a Napolitano che era opinione diffusa che “le criticità ed i contrasti esistono e sono gravi, ma che a essi non si riesce a porre rimedio. Mi ha turbato – continua il testo – leggere nei resoconti di un’audizione all’Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che della cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile. Come se fosse la stessa cosa – notava lo stretto collaboratore del Presidente – trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa, da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore”. In realtà, lo stesso procuratore nazionale antimafia Piero Grasso smentirà di lì a poco pubblicamente che ci siano contrasti tra le procure, mentre confermerà le pressioni su di lui perché esercitasse “poteri di coordinamento”.
C’è poi un passaggio della lettera in cui il consigliere cita espressamente il Fatto Quotidiano e il vicedirettore Marco Travaglio come esempio del clima accusatorio che circondava lui e il Quirinale.D’Ambrosio riprende le parole scritte dal giornalista il 16 giugno scorso: “In questo momento un pugno di pm solitari cercano la verità sul più turpe affare di Stato della seconda repubblica: le trattative fra uomini delle istituzioni e uomini della mafia”, riporta il consigliere giuridico di Giorgio Napolitano. “Tutti gli italiani onesti sono dallo loro parte. Da che parte sta il Quirinale che dovrebbe rappresentarli?” concludeva il commento riportato da D’Ambrosio. Lo stesso giorno, in realtà il Fatto Quotidiano pubblicava una intervista allo stesso D’Ambrosio, in cui il consigliere dava la sua versione “dell’interessamento” mostrato da Mancino.
Tornando al contenuto della lettera, D’Ambrosio manifestava la preoccupazione che di lì in poi qualsiasi cosa potesse ritorcersi contro il Quirinale: “Non conosco il contenuto delle conversazioni intercettate – continua il testo – ma quel tanto che finora è stato fatto emergere serve a far capire che d’ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità. Ne sarò ancor più amareggiato sgomento – continuava D’Ambrosio – anche perché, come ho detto anche quando sono stato sentito a Palermo come persona informata sui fatti del 1992 e 1993, sono il primo a desiderare che sia fatta luce giudiziaria e storica sulle stragi; perchè quei tempi li vissi accanto a Giovanni Falcone poi dedicandomi, assieme a pochi altri, senza sosta a comporre quel sottosistema normativo antimafia che ha minato la forza di Cosa nostra e di organizzazioni similari. Non le nascondo – scrive ancora – di aver letto e riletto le audizioni all’Antimafia di protagonisti e comprimari di quel periodo di aver desiderato di tornare anche io a fare indagini, come mi accadde oltre trent’anni fa dopo la morte di Mario Amato, ucciso dai terroristi. Ecco, che tutti questi sentimenti siano ignorati per compromettere la mia credibilità o, quel che peggio, per utilizzare tale compromissione per ‘volgerla’ contro di lei, non è per me sopportabile. Sono certo che, per come mi ha conosciuto in questi anni e nei 10 anni precedenti, lei comprende il mio stato d’animo”.
La lettera si concludeva con queste parole: “A lei rimetto perciò il prestigioso incarico di cui ha voluto onorarmi, dimostrandomi affetto e stima”.
LA RISPOSTA DI NAPOLITANO
Al suo consigliere Napolitano rispose il giorno dopo: “Caro dottor D’Ambrosio, l’affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni, sempre accresciutisi sulla base dell’esperienza del rapporto con lei, restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me. Ce ne saranno ancora, è probabile: li fronteggeremo insieme come abbiamo fatto negli ultimi giorni. E la sua vicinanza e collaborazione resterà per me preziosa fino alla conclusione del mio mandato. Preziosa per sapienza, lealtà e generosità. Ciò non significa – prosegue il testo – che io non comprenda il suo stato d’animo e la sua indignazione (dire amarezza è poco). Le sue condotte, così come le ha ricostruite nella sua lettera sono state, e non solo in questi 6 anni, ineccepibili; e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi – funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo – di quanti, magistrati, giornalisti e politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me”. “Non posso, però, che invitarla – scriveva ancora il Presidente della Repubblica a D’Ambrosio – a uno sforzo di rasserenamento e di ferma, distaccata predisposizione a reagire agli sviluppi della situazione. Traendo conforto anche dall’apprezzamento e dal rispetto che nutrono per lei tutti i galantuomini che operano nel mondo della giustizia o hanno comunque avuto modo di conoscerla e seguirla. Lo sforzo a cui la invito – concludeva Napolitano – non è facile; e lo so perché non solo a esemplari servitori dello Stato, ma anche a politici impegnati in attività di partito e nelle istituzioni, possono toccare amarezze e trattamenti tali da ferire nel profondo. Lo potrà rilevare leggendo qua e là la mia autobiografia politica, che le invio -pur avendone lei forse già copia – come segno di amicizia e fiducia”.