Dopo le stragi, l’ombra della trattativa tra Stato e mafia
In fondo è una storia tipicamente italiana. Di una mafia quasi onnipotente, di uno Stato incerto. Una storia di trame, depistaggi e sbandamenti investigativi. È una storia infinita, in gran parte ancora da scrivere. Del resto, sono passati «solo» vent’anni. La storia giudiziaria delle stragi del ‘92 in Sicilia appare strettamente collegata a quella delle stragi del ‘93 a Roma, Firenze e Milano. E, secondo una lettura che non ha trovato riscontro in pronunce giudiziarie, è legata anche alla nascita di nuovi soggetti politici e della Seconda Repubblica. Le stragi intrecciano i fili delle trame che le hanno ispirate con quelli della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia, toccando i fili dell’alta tensione istituzionale. Il pool del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia si appresta a chiedere un processo contro ex ministri, ex alti burocrati, investigatori, imprenditori e politici. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, ha già riscritto la storia del depistaggio di via D’Amelio e ha tirato fuori dalle celle sei mafiosi, ingiustamente accusati della strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino.
Il 23 maggio 1992, a Capaci, Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo e tre agenti di scorta vengono uccisi con il classico attentato perfetto, che colpisce tre auto lanciate a 160 chilometri orari, in autostrada. C’è solo la mafia, dietro? Solo Giovanni Brusca, che, fra mille mezze verità e reticenze sulle complicità «esterne», si autoaccusa di avere premuto il tasto del telecomando che scatena l’inferno? Solo Pietro Rampulla, l’artificiere del commando, uno dei primi 24 condannati all’ergastolo, nei processi celebrati a Caltanissetta? C’è solamente la meticolosità artigianale di un gruppo di bombaroli improvvisati? Sono domande che i magistrati di Caltanissetta non hanno mai smesso di porsi. Ma un livello diverso da quello dei mandanti e degli esecutori mafiosi non è mai emerso nei processi: e così una sfilza di ergastoli, 30 in tutto, colpirà la Commissione di Cosa nostra, con Totò Riina e Bernardo Provenzano in testa; e poi, fra gli altri, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Raffaele Ganci, Francesco Madonia, il catanese Nitto Santapaola, il nisseno Giuseppe «Piddu» Madonia. I processi vanno e vengono dalla Cassazione: solo nel 2008 arriverà l’ultima parola, quella definitiva.
Cinquantasette giorni dopo Capaci, via D’Amelio. Mentre la politica esita sulla conversione in legge di un decreto che istituisce il carcere duro, i mafiosi danno prova di una spocchia senza eguali. Si scatena la protesta della società civile, ci sono disordini ai funerali dei cinque agenti di scorta morti con Borsellino. Pochi giorni dopo quel tragico 19 luglio, il 13 agosto, il Sisde mette la polizia sulle tracce di un gruppetto da corte dei miracoli, ladruncoli e piccoli spacciatori, fra cui spicca Vincenzo Scarantino, un picciotto del quartiere della Guadagna. Convinto a suon di botte dal gruppo investigativo Falcone-Borsellino, guidato da Arnaldo La Barbera, diventerà in breve tempo l’uomo-chiave dell’inchiesta: si autoaccuserà, ritratterà, tornerà ad accusare e di nuovo si rimangerà tutto. Gli altri pentiti, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Santino Di Matteo, Gioacchino La Barbera, lo smentiranno. Ma il guazzabuglio giudiziario produce comunque condanne, che arrivano in primo grado già il 27 gennaio 1996. Verranno poi altri processi, il bis e il ter, fondati su altri presupposti: le condanne alla fine saranno 32. Verrà infine il pentito Gaspare Spatuzza, ritenuto molto più attendibile: racconta la vera storia dell’attentato, scagiona il clan della Guadagna e coinvolge i boss di Brancaccio, i Graviano. Spatuzza parlerà di un livello più elevato, rilancerà i sospetti (già archiviati, a Caltanissetta e a Firenze) contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ancora una volta indicati come «mandanti occulti». Non verrà creduto.
Cosa ci fu, allora, dietro il «colossale depistaggio» individuato da Lari? Il dolo dei Servizi deviati? E perché? Una ragione c’è, secondo i magistrati. Nei 57 giorni che separano le due stragi i carabinieri del Ros prendono contatti con Vito Ciancimino, attraverso il figlio Massimo. L’ex sindaco mafioso di Palermo, secondo la versione del capitano Giuseppe De Donno e del generale Mario Mori, accetta di dare indicazioni sulla ricerca dei latitanti, Riina in testa. Ma il canale, secondo Mori e De Donno, rimarrà dormiente fino ad agosto, dopo la strage di via D’Amelio. Diversa la versione di Ciancimino jr, che dal 2008, dopo essere stato condannato per avere fatto sparire il tesoro delle tangenti del padre, avvia una controversa collaborazione con la Procura di Palermo: i contatti col Ros, racconta, ben prima di via D’Amelio avrebbero prodotto abboccamenti. La mafia avrebbe posto allo Stato le condizioni per interrompere l’attacco a suon di bombe, scrivendole nel cosiddetto papello.
La versione di Ciancimino coincide, in parte, con quella di Brusca, il primo a parlare di quei presunti approcci e a tirare in ballo l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino. Il figlio dell’ex sindaco mafioso risveglia le memorie: Claudio Martelli, Liliana Ferraro, gli ex pm Massimo Russo Alessandra Camassa aggiungeranno tasselli che portano oggi i pm di Palermo e di Caltanissetta a parlare di un Borsellino assassinato per avere scoperto la trattativa e per avere cercato di fermarla. Ciancimino poi farà carte false per dimostrarsi inattaccabile, ottenendo l’effetto diametralmente opposto. Ma restano le indagini sulla trattativa e il processo in cui Mori è accusato di avere favorito Bernardo Provenzano, che sarebbe stato «ringraziato» con una specie di protezione di Stato per avere consentito, alla fine dell’annus horribilis delle stragi siciliane, la cattura di Totò Riina.
Poi ci sono i dubbi e i veleni sulla seconda parte della trattativa, nel ‘93, l’anno in cui le bombe sarebbero state piazzate per eliminare o ammorbidire il carcere duro, il 41 bis. Una storia che secondo i pm di Caltanissetta è solo una vergogna di Stato, non punibile, e per i magistrati di Palermo merita invece un processo per un concorso nell’assalto alle Istituzioni e, in qualche caso, anche solo per le dimenticanze e le reticenze istituzionali di chi lo Stato assediato avrebbe dovuto difenderlo.