Mi chiedo se la gente “sa che abbiamo voluto un campo in cui si può entrare ed uscire liberamente – elemento non affatto scontato – affinché gli ospiti non lo avvertissero come spazio coercitivo bensì come luogo accogliente”. Ho letto più volte questa frase nella lettera di Ioculano a Repubblica e più volte mi son chiesto cosa potesse passare per la mente di un ragazzo che avrà si e no la mia età, nel vantarsi di aver creato uno spazio aperto, accogliente per i migranti, senza controlli, senza regole. Naturalmente, le esperienze della Catalogna, della Brexit ma anche semplicemente del nostro vicino di casa terrone, polentone o mangiamerluzzi, ci insegnano che l’integrazione tra popoli non avviene per magia, togliendo muri e barriere, aprendo gli spazi. Siamo fatti così. Se veramente il sindaco vuole vantarsi di qualcosa, si vanti di aver creato uno spazio chiuso, accogliente per gli ospiti ma separato dalla città oppure si vanti di aver creato uno spazio aperto, pieno di momenti di variopinta armonia interculturale. In questo momento, io che vivo a Ventimiglia, non vedo possibilità di integrazione, non vedo dialogo ne’ misure volte a favorirlo. Vedo gente per strada, che gironzola senza meta a qualsiasi ora, che a volte beve, a volte mangia, a volte ride a volte piange ma sempre in modo sconclusionato rispetto al movimento degli altri ospiti della città, ossia i cittadini di Ventimiglia. Vedo, sorridendo, il divieto di vendita di alcolici dopo le 19.30 (perché loro non sono in grado di reggere l’alcol) o il divieto di superare i 30 all’ora, in un rettilineo di 2 km che porta a Bevera (perché loro non sono capaci ad attraversare la strada). Sono queste le misure di integrazione, il pegno che dobbiamo pagare in nome della fratellanza fra i popoli?
18 ottobre 2017 – Albino Dicerto