Il dibattito sull’art. 18 continua a registrare una diatriba, a mio parere, superiore agli effetti dell’eventuale modifica dello stesso articolo.
Non credo sia un caso che nonostante il disegno di legge delega 1428/2014 attualmente all’esame del Senato (cd. Jobs Act) abbia l’appellativo di “riforma organica” del nostro diritto del lavoro, nuovamente e per l’ennesima volta l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica si è concentrata sull’“articolo 18”.
In realtà le conseguenze reali di una (buona) modifica di detto articolo non inciderebbe sulla stragrande maggioranza delle imprese private e pubbliche. Perché se ne parla così tanto (per non dire solo) di questo “art.18”? Che cos’è questo ”art. 18”?
Da molti viene considerato (solo) un “simbolo” dello “Statuto dei lavoratori” del 1970, ma è anche una norma che limita il potere di licenziamento (solo però) nelle imprese medio-grandi. L’”art.18” è infatti applicabile solo nelle imprese:
- che se divise in unità produttive, ciascuna unità deve essere con più di 15 dipendenti (5 se agricole);
- che se le unità produttive sono con meno di 15 dipendenti (5 se agricole), l’azienda deve occupare nello stesso comune più di 15 dipendenti (5 se agricola);
- che abbiano più di 60 dipendenti.
L’”art. 18” non tutela quindi la maggior parte dei lavoratori italiani ma solo un terzo di essi. I dati forniti dall’Istat parlano chiaro: in Italia ci sono circa 23 milioni di lavoratori attivi ma, tolti i dipendenti pubblici e i liberi professionisti, rimangono in totale circa 17,5 milioni di persone. Di questi, quasi 10 milioni sono addetti delle piccole imprese (che hanno meno di 15 addetti) mentre altri 7,5 milioni sono occupati nelle aziende medio-grandi (con più di 15 addetti).
I lavoratori interessati dall’”art.18” che tutela hanno? Per loro è così importante avere le garanzie dell’”art.18”? Di cosa parliamo in realtà?
L’”art. 18” dello statuto dei lavoratori è intitolato “reintegro nel posto di lavoro”. La materia del contendere è quindi la seguente: un lavoratore che gode dell’attuale tutela dell’”art.18” può essere licenziato come un qualsiasi altro lavoratore, con la differenza (ecco il privilegio) che se il licenziamento è illegittimo detto “lavoratore tutelato” può chiedere, oltre al risarcimento del danno, di essere reintegrato forzatamente nel posto di lavoro dal giudice. Infatti per il lavoratore NON tutelato dall’”art.18”, se licenziato illegittimamente (senza giusta causa), ha ugualmente diritto al risarcimento del danno ma non può chiedere di essere forzatamente reintegrato nel posto di lavoro. Questa è la differenza.
Due sono le questioni che voglio evidenziare e sulle quali il Governo Renzi (come il precedente Governo Monti e Berlusconi) vuole cercare di intervenire. Cosa si intende per licenziamento illegittimo (senza giusta causa) e quale riflesso ha per l’azienda e per il datore di lavoro il reintegro forzato (di quest’ultimo aspetto nessuno parla).
Nessuno vuole modificare, ci mancherebbe altro, diciamolo subito, le tutele di legge contro la discriminazione (raziale, religiosa, politica, sessuale, ecc.), come nessuno vuole modificare le tutele previste da altre leggi vigenti (ad esempio, a tutela della maternità o della salute): questi sono e resterebbero licenziamenti illegittimi.
Il privilegio che si vuole togliere è quello che riguarda i licenziamenti per motivi economici o disciplinari. Se un’impresa medio –grande non riesce a pagare più gli stipendi deve poter licenziare. Se un dipendente ruba, non lavora, non segue le direttive aziendali, ecc. deve poter essere licenziato a fronte dell’indennizzo del danno economico subito dal licenziamento. Come oggi già avviene nei 2/3 delle aziende italiane.
Si parte dal presupposto che nella normalità dei casi (stragrande casistica) in datore di lavoro non si diverte a licenziare, perché licenziare un corretto lavoratore, togliere il sostegno economico che quello stipendio dava alla famiglia dell’onesto lavoratore, è il suo primo fallimento da imprenditore e da uomo. Come nessuno si diverte a risarcire economicamente il lavoratore.
Il prof. Armando Tursi – Professore Ordinario di diritto del lavoro nell’Università degli studi di Milano, ha detto: “La gelosia con cui i datori di lavoro – tutti: piccoli e grandi, privati e pubblici, profit e non profit – difendono la libertà di decidere con chi collaborare, spiega perché essi siano disposti a chiudere transattivamente la maggior parte delle liti che riguardino licenziamenti assoggettabili alla cd. “tutela reale”, con l’esborso di somme spesso assai ingenti, e tanto maggiori quanto maggiore sia il rischio di una reintegrazione effettiva in servizio. Così come spiega come mai, nella Repubblica Federale Tedesca, che pure conosce la reintegra nel posto di lavoro, essa (al di fuori dei casi di licenziamento discriminatorio) sia rarissimamente applicata, poiché quasi sempre il Giudice riconosce, su istanza e prova della parte datoriale, che la prosecuzione forzata del rapporto di lavoro sia da considerarsi irragionevole.”
Dal punto di vista del datore di lavoro, peraltro, poter ragionevolmente e logicamente decidere, anche con sofferenza, di poter licenziare è un presidio essenziale della propria autorità, che peraltro garantisce l’efficienza e il rispetto delle regole aziendali, disciplinari, economiche e dell’organizzazione.
4 ottobre 2014 – Marco Prestileo
Sarebbe importante e doveroso discutere anche dei contratti CO.CO.CO e dei CO.LI.PRO, che sono contratti che non rispettano il lavoratore, lo sfruttano spremendolo come un limone . Infatti le persone obbligate ad accettare questi tipi di contratto non hanno diritto alle ferie pagate e neppure alla malattia. Il TFR poi di cui tanto si parla è una parola che non si deve neppure pronunciare. Poi bisognerebbe anche parlare di quelle giovani donne che sotto coercizione devono firmare il licenziamento in bianco, perché se arriva una maternità costituisce una grandissima rottura di scatole per il datore di lavoro e non un investimento verso il futuro.
Concludendo dico che tutta la discussione sull’articolo 18 mi sembra eccessiva utile solo a gettare il fumo negli occhi alla gente, che cosi’ “dimentica ” tutti gli altri problemi relativi al lavoro.
Circa la libertà di licenziare per motivi economici o disciplinari dico che si tratta, a mio modo di vedere di un gran bel passo indietro. L’imprenditore non sempre è un galantuomo e non sempre possiede quelle doti umane che lo renderebbero non solo imprenditore , ma anche un grande uomo. L’animo umano è molto complesso e per nulla lineare, per cui sotto le spoglie dei motivi economici o disciplinari si possono nascondere motivazioni cariche dei piu’ bassi istinti.
Dico queste cose perché ho incontrato una persona che dopo 30 anni di lavoro è stato licenziato dopo 180 giorni di malattia. Questa persona è colpevole di aver avuto un cancro all’intestino, di essere stato operato, di aver seguito le cure di protocollo e di aver poi scoperto di avere metastasi. Non ha ancora raggiunto il diritto alla pensione. Non sta bene sia nel corpo che nell’anima.
Ma, il datore di lavoro deve fare i conti aziendali. L’impresa deve essere in attivo.
Questa persona, oltre al cancro ha anche un’altra colpa: quella di aver fatto attività sindacale!!!. Bene ora il datore di lavoro ha colto l’occasione per esprimere tutta la sua bassa umanità con la scusa del motivo disciplinare ( ha mandato con qualche giorno di ritardo il certificato medico per proseguire la malattia). Quindi, caro Marco rimango molto perplessa in merito alla possibilità di licenziare!.