Di ritorno dal polo (1)

Atterri a Longyearbyen e, di botto, perdi ogni certezza. Sono le 11.30 del pomeriggio (di sera?) e il sole è ancora alto nel cielo. Sei in estate e sei sotto lo zero, con un vento gelido che penetra 1 piumino e 3 maglioni, come fosse burro, e viene a punzecchiarti l’addome. Qui la Terra gira a meno di 300 km/h, un quinto della velocità a cui gira in Italia. Non esistono alberi ne’ vegetazione.  La cima del mondo è più pelata di me. La civiltà è distante almeno 3 ore di volo, quando le condizioni meteo permettono il viaggio. Fuori dall’aeroporto – un magazzino con una striscia di asfalto lunga il giusto per un comodo atterraggio – ci aspetta l’autobus che ci porterà a Longyearbyen: una città di 1.000 abitanti, 2.000 orsi bianchi, qualche cane da slitta. Il primo impatto non è dei migliori: Longyearbyen è una città di capannoni, strade poco asfaltate (quasi sterrate), qualche casa che assomiglia a container. Eppure, nonostante queste “bruttezze”, guardiamo affascinati ogni centimetro di questo posto avvolto nel nulla, guardandoci e chiedendoci l’un altro cosa mai dovrebbe spingere un essere umano ad abitare lì. Arriviamo al centro di un paesino composto da casa sparse, costruite, sembrerebbe, in modo più o meno casuale, lungo l’unica strada che attraversa il paese. Le condotte e i cavi, così come le case, sono tutte su palafitte, alte almeno mezzo metro da terra. Sotto terra non esiste niente: il permafrost, congelandosi e scongelandosi, rispedirebbe tutto in superficie: nemmeno i morti possono riposare qui, vengono rispediti in Norvegia o in patria. Si, perché Longyearbyen ci appare subito multiculturale più di una metropoli del centro Europa: per stabilirsi lì, non c’è bisogno di visti o permessi di soggiorno, chiunque può, una volta entrato, rimanerci per sempre. La nostra guida, ci spiega che non esiste criminalità, che non c’è bisogno di polizia o carabinieri. La comunità si autoregola: se sbagli, impacchetti i bagagli e te ne torni a casa. Notiamo che tutti lasciano le chiavi attaccate al cruscotto: non può nemmeno esistere la tentazione di rubare un auto, non sapresti dove portarla, come nasconderla, cosa fartene… Scopriamo poi che, a differenza di come immaginavamo, le Svalbard non sono solo un posto di transito di persone che vivono lì per pochi mesi: incontriamo cittadini veri che si sono stabiliti in zona da molti anni e che non hanno nessuna intenzione di andarsene. Tutto è autoregolato, tutto funziona in modo perfetto, guidato da leggi non scritte ma che tutti rispettano. Non esiste IVA e le imposte sui redditi sono al 16%, fisse, finalizzate a far funzionare la città e gestire i bisogni collettivi della comunità. Non esistono poltrone da attribuire, non esistono soldi pubblici da sprecare, non esiste evasione fiscale o corruzione. La percentuale di bambini è molto alta, Longyear ha uno degli asili più attrezzati che avessimo mai visto, le scuole superiori ed una università. Insomma, dopo poche ore, la domanda che ci poniamo è: ma quando è successo che noi occidentali abbiamo perso la rotta? E’ davvero possibile continuare a vivere sul continente, con le nostre strutture e sovrastrutture, i politici, la mafia, i cacciatori di mafia e l’Agenzia delle entrate…? Cosa mai dovrebbe spingere un essere umano ad abitare le nostre città?

11 settembre 2014 – Albino Dicerto

2 pensieri su “Di ritorno dal polo (1)

  1. Leggendo l’articolo mi è subito venuto alla mente il testo freudiano “Il disagio nella civiltà” del 1930.
    In questo saggio assai controverso, Freud sostiene che la civiltà si è formata per assicurare protezione e sicurezza, ma rischia di procurare enormi sofferenze alle persone.
    Infatti la civiltà si regge sul precario equilibrio delle relazioni tra individuo e società. L’equilibrio è precario a causa del perenne conflitto tra principio del piacere e principio della realtà. L’uomo deve costantemente rinunciare a qualche piacere istintuale in nome del bene comune. Ciò provoca sentimento di aggressività e colpa per cui siamo condannati ad infliggerci sofferenze enormi in nome della civiltà.
    Probabilmente la società di Longyearbyen è tranquilla, priva di tensioni collettive, perché gli amministratori sono capaci di trovare il giusto equilibrio tra principio della realtà e principio del piacere.
    Il compito di chi governa quella società è forse anche facilitato dal fatto che si tratta di una piccola comunità con particolari condizioni climatiche e da un isolamento dovuto alle caratteristiche del territorio.
    La nostra civiltà occidentale invece presenta caratteristiche sociologiche assai complesse, per cui viviamo costantemente tensioni collettive relative alla disastrosa situazione economica e all’incapacità della nostra classe dirigente di gestire la res pubblica.
    Siamo immersi costantemente nella corruzione, prepotenza, arroganza, rifiuto di rinunciare ai privilegi ( qui il conflitto inconscio tra principio del piacere e principio della realtà raggiunge vette altissime ) e all’evasione fiscale ( anche su questo punto non si scherza con il conflitto Io-es-super-io).
    Ma, a pensarci bene anche a Longyearbyen c’è un conflitto da risolvere o meglio un prezzo da pagare: assenza di sole per molti mesi dell’anno ( che depressione!!!!) e assenza della notte per qualche mese!!
    Non è poco…almeno per me non sarebbe cosa di poco conto.

    • L’idea che mi son fatto io è un po’ diversa: il grosso problema della nostra collettività è la marea di strutture e sovrastrutture che devono giustificare se stesse, per il solo motivo che esistono. Se hai dei prefetti, qualcosa devi fargli fare, se hai dei politici non puoi lasciarli a casa, se hai degli impiegati pubblici, certamente non puoi licenziarli. Credo che la grossa differenza, clima a parte, sia proprio data dall’assenza/presenza di strutture (non c’è qualcuno che governa a Longyear o, comunque, chi lo fa, non ha la possibilità/necessità di fare sfoggio di potere). Credo che il concetto che tento di esprimere sia molto simile a quello già perfettamente espresso da Vincenzo Natali in “IL CUBO”, film ricorrente nella mia vita e che comprendo a piccoli tocchi, con il passare del tempo.

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