Mano negra

Dopo 3 giorni di viaggi in scooter spesi a pensare a qualcosa di intelligente da dire sul triste episodio di Diop Mamemor, il ragazzo senegalese morto Venerdi scorso, non mi veniva in mente nulla. Avevo quasi abbandonato l’idea di scrivere qualcosa, i miei pensieri erano divisi perfettamente a metà, a favore e contro gli immigrati. Insomma, questa mattina avevo in programma di rinnovare il passaporto. A Sanremo l’ufficio passaporti condivide la sala d’attesa con l’ufficio immigrazione.Il piantone chiude la porta dietro di me relegando una 15 di persone in una stanza di meno di 20 metri quadrati.

– Non riusciamo a climatizzare gli uffici se tenete la porta aperta!

La confusione tra italiani che richiedevano il passaporto e immigrati che chiedono il visto o altre informazioni è notevole, così come gli accenti e le lingue che si mescolano in un’unica incomprensibile lingua. Il piantone riporta la calma, decide che è il momento di dividere gli italiani per la pratica di passaporto e gli stranieri, per visti e permessi di soggiorno.

Per chi non mi conosce, sono un ragazzo molto figo ma condivido alcuni tratti somatici con le popolazioni del mediteranno nord-africano (Tunisino? Algerino?).  Complice un’abbronzatura smagliante (che mi rende ancora più figo) vengo messo in fila con gli immigrati. Non dico niente, mi sistemo in fila per richiedere il visto. Volevo stare un po’ con loro. Ad un tratto non riuscivo più bene a distinguere il senso di chi è immigrato e chi non lo è.  Ero un italiano in mezzo a mille stranieri, ero un immigrato.

– Mi sfugge il concetto di immigrato… – dissi alla mia coscienza.

– In che senso? Spiega… – rispose.

– Cioè, se io al mattino prendo lo scooter e da Ventimiglia vado a Sanremo sono un immigrato?

-No.

– E se prendo lo scooter e vado a New York?

– Se ci riesci, sei un immigrato.

– E se prendo lo scooter e vado a Mentone?

– Anche.

– Ma siamo esseri umani… Prefetti a parte intendo!

– Sei immigrato quando quelli del posto ti guardano diversamente, perché fai paura…

– Quindi questo è l’ufficio che filtra la paura?

– Una specie…

E’ ormai il mio turno, voglio stare ancora un po’ in coda con loro, a parlare con me stesso. Faccio cenno a chi sta dietro di me che poteva passare. Non dico niente, non posso parlare con loro e non voglio esprimermi in italiano. Hanno fretta, come se fossero italiani alle poste. Arrivati all’ufficio si sono resi conto che avevano tutti appuntamento alle 9 e che quindi, non c’era nessun appuntamento. C’era la fila. E un immigrato che li fa passare, inspiegabilmente, avanti.

Se non fai il test di italiano non ti danno il permesso di soggiorno.

Se non hai il pollice sinistro nemmeno.

Rimango ancora un po’ lì con loro, a guardarli, a osservarli. Non fanno paura, almeno, non più di quanta sembrano averne loro della nostra burocrazia. Esco dall’ufficio che filtra la paura e me vado a lavorare. Senza passaporto. Con Manu Chao in testa. Ciao Diop, a presto.

23 luglio 2013 – Albino Dicerto

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