Oggi mi sono spinto oltre le locandine dei giornali e mi sono preso una mezzora per leggere un giornale. Nel mio processo di democratizzazione interiore, ho smesso di leggere solo il Manifesto, non so se sia un bene.Di questo articolo che riporto di seguito, mi disturbano solo due cose: la prima è di averlo letto sul Corriere della Sera, la seconda di non averlo scritto io… Mi sono permesso di adattare il testo al particolare momento storico in cui vive la mia città.
«La mafia». Molti Ventimigliesi si stanno ormai abituando a giudicare la politica nell’ottica di quest’unica categoria demonizzante, e quindi a vedere le cose e gli uomini della scena pubblica della loro città in una sola luce: sono tutti dei mafiosi.
La prima caratteristica della mafia, quella che la rende così facilmente utilizzabile, è la sua indeterminatezza. La mafia, infatti, come insegnano i suoi denunciatori di professione, si annida dovunque. Potenzialmente essa riguarda tutto e tutti. Può consistere nella sentenza di un tribunale, in un articolo di giornale, nella decisione di qualunque autorità, in una trasmissione televisiva, in tutto. Ma soprattutto è mafia la trattativa, l’accordo, il compromesso espliciti, così come pure – anzi in special modo! – l’intesa tacita che su una determinata questione si stabilisce per così dire spontaneamente tra gli attori politici di parti diverse. Tanto più che perché di mafia si possa accusare qualcuno non c’è bisogno di alcuna prova. Per definizione, infatti, la mafia agisce nell’ombra, al riparo da occhi indiscreti. E dunque, paradossalmente, proprio la circostanza che di essa non si abbiano tracce visibili diviene la massima prova della sua esistenza.
Un ulteriore vantaggio che offre poi la mafia in termini polemico-propagandistici è che essa, di nuovo, può sottintendere tutto, il fare ma anche il non fare. Agli occhi dei suoi teorici essa è anzi soprattutto questo: è il non fare, il disertare, l’abbandono della posizione di fronte al nemico. Un aspetto, questo, che indica assai bene quale sia l’idea della democrazia che hanno i denunciatori di professione dell’ anti mafia. È un’idea per così dire bellica della democrazia, radicalmente fondata sul concetto di ostilità. Per non essere l’anticamera della mafia, la democrazia deve essere scontro permanente, continua denuncia dell’avversario e dei suoi disegni, illustrazione delle sue indegnità morali, smascheramento; ogni discorso deve sbugiardare, denudare, indicare al pubblico ludibrio.
La massima virtù civica non è la probità, è l’indignazione. Chi non si adegua, chi invece guarda alla democrazia come a quel sistema che si fonda, sì, sulle «parti» e sulla loro contrapposizione, ma anche, specialmente nei tempi difficili, sulla ricerca dell’accordo, sulla tessitura di compromessi, sulla moderazione di toni, sul riconoscimento dell’opinabilità di tutti i punti di vista (compreso il proprio, naturalmente) e della buona fede altrui, ebbene costui è già un potenziale «mafioso», un «traditore», un «venduto».
1 maggio 2013 – Albino Dicerto